Adesso racconto la mia storia, ma per raccontare la mia storia, devo raccontare l’inferno
Ero un bambino felice, in una famiglia numerosa, composta da otto persone: due fratelli, una sorella più grande di me, i miei genitori e i nonni paterni. Quando ad Auschwitz-Birkenau tutto finì e tornai nella mia città, non avevo ancora compiuto 17 anni e mi ritrovai solo e disperato. Non avevo più nessuno.
Penso che sia opportuno raccontare tutto quello che ha preceduto la deportazione, cioè la sera che le SS arrivarono nella casa dove eravamo rifugiati, ci arrestarono e ci portarono via. Ma non iniziò tutto quella sera. In Italia è cominciato tutto il 5 settembre 1938, quando la Germania nazista non c’entrava assolutamente niente. È stata una cosa tutta nostra, tutta italiana, ciò che mi ha portato nell’inferno di Auschwitz-Birkenau. Quel giorno il Gran Consiglio del fascismo emanò la prima di una lunga serie di leggi per la difesa della razza. La prima di queste si applicava nella scuola fascista. Con questo provvedimento tutti i cittadini italiani di religione ebraica furono estromessi dal mondo della scuola. Io, bambino di 9 anni, tutti gli studenti delle elementari, medie, superiori, università, tutti i docenti e chiunque frequentasse in qualche modo il mondo della pubblica istruzione. Eravamo quattro fratelli, tutti andavamo a scuola e mamma ci incitava sempre a studiare, tanto che poi, quando ci cacciarono, ero davvero disperato. Pensai subito: –Cosa mai potrò fare nella vita se non posso studiare? – .
E invece esisteva già una scuola ebraica per le elementari. Fu organizzata per le medie inferiori e superiori e, addirittura, anche un’università con la sola facoltà di ingegneria. Andavamo di nascosto la sera, professori e studenti.
Dopo questo primo provvedimento, ne furono emessi altri. Furono ben 187 le leggi emanate dal partito fascista, ognuna di queste proibiva qualcosa. Per esempio, non si poteva avere una bancarella ambulante. A Roma c’erano 800 capi famiglia ebrei che vivevano di questo mestiere. Poi tutti i professionisti furono cancellati dagli albi professionali. Agli ebrei erano vietate tutte le località di importanza strategica e tutte le coste. Non potevamo andare al mare e fare un bagno. Perché ? Avremmo per caso contaminato l’acqua? Quale poteva essere il motivo, se non renderci la vita impossibile.
Le cose in famiglia cambiarono, certamente in peggio. A me queste difficoltà non venivano fatte arrivare. Io non avevo più gli amici della scuola pubblica, avevo gli amici della scuola ebraica. Pensandoci oggi posso dire che è stata quella la mia fortuna, perché quando sono tornato dall’inferno e mi sono ritrovato solo e disperato, non avevo più nessuno. Posso dire che sono stati gli amici che mi hanno salvato. Mi presero sotto la loro protezione e non mi lasciarono più da solo.
L’occupazione nazista
L’8 settembre 1943, Roma venne occupata dai nazisti. Venti giorni dopo l’occupazione di Roma, i responsabili della comunità ebraica furono convocati dal comando tedesco. Fu loro imposto il versamento, entro 36 ore, di 50 chilogrammi d’oro. Se non fossero stati versati, 200 capi famiglia ebrei sarebbero stati deportati in Germania. Fu una lotta contro il tempo. Erano passati cinque anni dall’emanazione delle leggi razziali e quello che c’era di prezioso in famiglia era stato già venduto, così come nella gran parte delle altre famiglie ebree. Nonostante le difficoltà, la solidarietà di tutti questa volta fu forte. Riuscirono a consegnare i 50 chilogrammi d’oro. Il commento di papà fu: – Possiamo stare tranquilli, abbiamo versato il riscatto che è stato richiesto. Abbiamo la parola di un alto ufficiale tedesco e un ufficiale, a qualsiasi esercito appartenga, non verrà mai meno alla parola data –
Invece, venti giorni dopo, le SS tedesche coadiuvate dai reparti dei fascisti italiani, si addentrarono nel vecchio ghetto di Roma e portarono via tutti. Sani, malati, vecchi, donne in stato di gravidanza, bambini appena nati. Finita la razzia nel ghetto di Roma, si spostarono nell’altra parte della città, dove eravamo rifugiati anche noi. Per fortuna riuscimmo a scampare alla cattura, grazie all’aiuto di una persona che ha rischiato la vita per noi.
Roma era tappezzata di manifesti, sin dal primo giorno dell’occupazione, che informavano che la città era assoggettata alle leggi di guerra germaniche. Tra queste leggi c’era anche quella che stabiliva che chi avesse aiutato gli ebrei, era passibile di pena di morte.
Quindi la gente di questo quartiere che prese in casa propria i miei nonni e ci diede le chiavi di un appartamento arredato, a me e ai miei fratelli ci aprì le porte di una cantina, ha rischiato, ha rischiato davvero tanto. Non potevamo che rimanere nascosti, ma non avevamo mezzi per vivere. Dovevamo necessariamente uscire tutti i giorni. Andavamo in giro per la città, a cercare di acquistare qualsiasi cosa ci potesse servire per sopravvivere. Dovevamo fare attenzione perché le SS pagavano un compenso di 5000 lire per ogni ebreo che veniva loro consegnato, solo per essere mandato a morire. Tanto valeva la vita di un ebreo …
Arrivammo così al 7 aprile del 1944. La mattina quando salimmo nell’appartamento, papà disse – Ragazzi questa sera è festa. È Pasqua -. Noi accettammo di festeggiare con gioia. Eravamo davanti la tavola, stavamo recitando le preghiere e sentimmo bussare alla porta. Sulla soglia tre SS armate di mitra e un fascista. Fu quest’ultimo ad accompagnare le SS fino alla porta di casa, per quel compenso di 5000 lire. Cominciarono a urlare in tedesco, ma chi li capiva. Diedero un foglietto a mio padre con su scritto: Avete venti minuti di tempo per andare fuori. Portate con voi tutto quello che avete di valore, perché dove vi porteremo vi potrà servire. Scendemmo e c’era un’ambulanza che ci aspettava e accanto un’altra SS e un altro fascista. Ci dissero: – Diteci dove avete nascosto l’oro e i gioielli e domani sarete liberi -. Erano sciacalli. Salimmo sull’autoambulanza e dopo cinque minuti eravamo già al carcere di Regina Caeli. Faccia al muro e l’obbligo di non parlare. Alle nostre spalle l’ufficio matricole. Uno alla volta si entrava là dentro. Mi chiesero nome, cognome, maternità, paternità, luogo e data di nascita, colore degli occhi e dei capelli e tutto quello che sarebbe stato utile per una scheda identificativa. Poi mi dissero di imprimere l’indice della mano sinistra su un tampone d’inchiostro e portarlo sulla scheda.
In quel momento esitai. L’ufficiale nazista mi prese la mano, l’accompagnò sul tampone e poi sulla scheda. Uscii singhiozzando. Papà se ne accorse e ci disse delle parole che non ho più dimenticato: – Ragazzi, possono accadere fatti terribili, ma mi raccomando, qualsiasi cosa accada, siate uomini. Non perdete mai la dignità -. Ad Auschwitz mantenere la dignità non era possibile.
Il viaggio in treno
Il 16 maggio ci portarono, con degli autobus scortati dai carabinieri, alla stazione di Carpi. C’era una guarnigione tedesca. Le SS ci fecero salire su dei vagoni e quando furono pieni fino all’inverosimile, chiusero e sigillarono dall’esterno. Il treno, che era rimasto tutto il giorno sotto il sole, partì soltanto di sera. Si fermava a tutte le stazioni. L’acqua che avevamo portato era finita e invocavamo che ci venisse data altra acqua. Niente. Nessuno ci portò niente. Il treno arrivò a Verona. Alle sei del mattino era già pieno di gente e, nonostante sentissero le nostre voci e le richieste d’aiuto, nessuno poté fare nulla. I vagoni erano vigilati dalle SS. Il treno ripartì: ancora un pomeriggio e una notte di viaggio e si fermò a una stazione, quando finalmente aprirono i carri e ci fecero scendere. Le SS, con i mitra puntati, portarono alcuni di noi a fare rifornimento d’acqua alla stazione. Poi dissero a tutti di scendere, per fare i nostri bisogni. Seicento persone che contemporaneamente, in poco spazio, lì su quella banchina davanti ai vagoni, dovevano fare i propri bisogni. Una scena orribile. Il treno ripartì, ancora due giorni di viaggio e arrivammo a Monaco di Baviera Est. Ci diedero una zuppa calda e anche lì ci fecero fare i bisogni sul binario vicino. Poi arrivarono con degli idranti e pulirono i carri e fu un alleggerimento per le nostre sofferenze. Avevamo viaggiato quattro giorni e quattro notti in mezzo ai nostri stessi escrementi. L’invocazione di tutti per la mancanza di acqua. Il fatto che non c’era spazio. Sessantaquattro persone dentro un vagone, trattate peggio degli animali. Il pianto dei bambini che stavano male. Avevano fame, sete. Non ci può essere sofferenza maggiore di quella di un padre e di una madre che, oltre alla loro sofferenza, non potevano fare niente per alleviare quella dei loro figli. Il treno, dopo due giorni di viaggio, arrivò ad Auschwitz e sostò tutta la notte e la mattina. Nel pomeriggio del 23 maggio entrò nel campo di Birkenau, il campo costruito dalle SS con tutti i criteri scientifici soltanto per dare la morte. Ma noi non lo sapevamo. Avevamo visto le ciminiere e pensavamo: – Ci sono le fabbriche e andremo a lavorare -. No, quelle erano le fabbriche della morte.
L’inferno
Scesi dal treno, cominciò subito il massacro. Oltre il 90% delle donne e tutti i bambini, nella fila di destra. C’era un uomo con un frustino in mano che indicava destra o sinistra, con aria indifferente e tra un cenno e l’altro, si rivolgeva a parlare con qualcuno dei suoi sottoposti. Con aria assolutamente indifferente: vai a morire, vai a morire, vai a morire, vai a morire, vivi. Questa era la percentuale. Lo faceva come si può fare un lavoro di routine. Poi la stessa cosa nella fila degli uomini. Io e i miei fratelli superammo la selezione. Ci fu tatuato un numero sull’avambraccio sinistro e ci dissero che il nostro nuovo nome era quello. Il nostro vero nome non esisteva più. Se per qualsiasi cosa fossimo stati chiamati con quel numero e se non avessimo risposto, saremmo stati puniti. La punizione di Auschwitz spesso non lasciava scampo. Si moriva. Ad Auschwitz arrivavano ogni giorno trasporti su trasporti. Si susseguivano le selezioni. Le SS arrivavano di notte, accendevano la luce, cominciavano a urlare, a menare colpi di frusta o di bastone, aprivano una porta e, nudi, dovevamo uscire e … cominciava una nuova selezione. Il posto per quelli che arrivavano doveva essere lasciato da noi che eravamo già qui. Quindi in ogni momento della giornata, sul lavoro o durante il sonno, si poteva morire.
Il lavoro. Non voglio parlare del lavoro. Il lavoro nel fango, lo racconta Primo Levi, nella sua poesia Shemà. Un uomo che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no. Credo che questo sintetizzi al meglio ciò che abbiamo dovuto subire.
Io testimone
Ora io non posso dimenticare. Ricordo un fatto, una storia vera, di una nave, non di barconi, né di gommoni, ma di una nave grande, attrezzata, con la quale nel 1938, novecento esseri umani di religione ebraica riuscirono a salpare dal porto di Amburgo. Girarono mezzo mondo e toccarono un’infinità di porti, prima dell’Europa, poi dell’Africa settentrionale, poi dell’America. Ebbene questa nave non trovò nessun approdo. La nave, con novecento disperati a bordo, tornò ad Amburgo. I passeggeri dovettero scendere e, la gran parte di essi, finirono nelle camere a gas o nei forni crematori. Il mio ruolo, lo sapete, è quello del testimone. Fin tanto mi sarà possibile farlo, ho il dovere di far conoscere a quanta più gente possibile, la grande tragedia che è stata la Shoah. Faccio questo con la speranza che il passato non torni. È molto difficile, perché … lo vediamo anche oggi. Naturalmente lo vediamo in forme diverse. Vediamo questi disperati che cercano di sottrarsi alla fame, alle malattie, alle guerre, alle persecuzioni e che muoiono in mare. Credo che il nostro paese, l’Italia, stia facendo davvero tanto, il possibile, ma è un’impresa terribile, della quale tutti dovremmo farci carico. Non soltanto noi italiani, ma tutta l’Europa, ma sinceramente non so quanto l’Europa, oggi, su tante questioni, sia davvero unita. Ed è questo che ci manca.
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